Virus di umor leggero ~ di Giovanni Blanco

3 Giugno 2015
Pierre Molin

Come nei giorni delle grandi attese, guardando fuori dalla finestra del mio studio siciliano, la luce mattutina si diffonde netta e rivelatrice di forme e di colori incontestabili, quasi a significare il mistero insondabile che accompagna le esperienze visive dell’occhio. Mi affaccio curioso e lo sguardo cade sul profilo quotidiano dell’esistenza, dove le persone insospettabili, vestite e decorate dagli oggetti più disparati della modernità, insieme alle poche auto che passano (un roboante sistema del divenire tecnologico), creano lo scenario fluido del tempo. Parlo di questo tempo, del suo suono che conquista e, allo stesso modo, anestetizza i sensi, gli stessi con i quali traduco (traduciamo) molti di questi input-significanti, e che in significati si affacciano nella mente. Tuttavia, qualcosa sfugge sempre. Arrivo a pensare alle molte relazioni che tutto questo può avere oggi con la pittura, antico e segretissimo linguaggio che finge la luce riproducendola, come a cercare uno specchio con il visivo ottico, quello oggettivo, pendant che tuttavia si carica di valori più intimi e personali. Girandomi appena, sul lato destro della stanza, mi ritrovo sullo scrittoio colmo di carte e di appunti, dove luccica, acceso, anche il mio computer portatile. Attraverso il suo schermo brillante, scorro le pitture dell’amico Igor Molin, e lo stupore di confrontare i pensieri e le coincidenze visive, un attimo prima apprese da una casuale occhiata dalla mia finestra, mi disarma: il colore e le forme di queste opere rispecchiano, con sottile critica e sofisticata ironia, proprio quel sistema globale che, dai centri urbani più importanti, dilaga fino alle periferie più nascoste, e del quale ormai ciascuno di noi fa parte. Il “pensiero dipinto” da Igor in questi ultimi anni, con sapienza tecnica e straordinario trionfo cromatico, è molto chiaro: cercare nell’apparenza banale della smorfia di un passante, di un turista per caso, o di un flusso di persone intente a mangiare un gelato, a parlare al cellulare, o a consultare la mappa di una città teatro del turismo di massa (il Nostro proviene proprio da Venezia, per l’esattezza dall’isola di Burano), l’esperienza del bello vissuta attraverso gli emblemi e le contraddizioni dei valori dell’attualità. Per dirla con le parole di Claudio Cerritelli: “filtrando la coscienza collettiva con la forza del proprio mondo poetico”. Sovrappongo ancora, sul piano di questa visione virtuale, le riflessioni che vado facendo, trovando in questo suo linguaggio, come già ribadito, ironico, lo scandaglio antropologico dell’uomo contemporaneo. Da parte del pittore, è evidente, c’é una compiaciuta certezza che si tratti di un gioco, di un “gioco serio”, che sottolinea questo paradosso, da sempre fondante per l’arte nei suoi statuti metodologici, tecnici e poetici. Il luogo digitale attraverso il quale osservo le opere di Igor, seppur con altre implicazioni fenomeniche, mi aiuta a catalizzare meglio la visione, articolata dal potere attrattivo del colore, e trova contrasto percettivo con la luce meridiana che splende fuori dal mio studio. Igor è un pittore molto attento alla tradizione antica dei grandi coloristi veneti: Tintoretto, Veronese, non ultimo Tiepolo, evidenziando una cromia satura, fatta anche di accordi disarmonici. Ne comprendiamo, così, il valore vitale dei toni, prima ancora dello sviluppo formale, che amplifica la percezione visiva in un turbinio di sensazioni capaci di svelare ogni segreto della luce. I soggetti dipinti, dapprima, nascono attraverso scatti fotografici “rubati”, come a catturate il velo dell’apparenza dei singoli individui, che hanno la funzione di appunti, quasi un taccuino, un accumulo visivo che viene smontato e rielaborato nella pittura con perizia, sottraendolo in fine alla nozione di tempo e di spazio: in un’unica e mirata mossa, quelle immagini vengono decontestualizzate per sempre. E’ questa la mise en scène della sua pittura, la teatralizzazione e l’esaltazione della figura umana con contenuti capaci ancora di raccontare l’uomo nella sua integrità sociale ed esistenziale. Osservando alcune opere quali: il Polittico berlinese, il Polittico green, o quadri come Salute e Serenissime, tutto quello a cui vado riferendomi prende davvero forma, assumendo una fisionomia concreta e reale. Già la scelta di strutturare un lavoro in polittico ci induce a leggere l’opera in modo più complesso, con tutti i rimandi alla tradizione figurativo – narrativa delle pale d’altare, e con la conseguenza concettuale di uno sguardo, lo sguardo del pittore, che si predispone a registrare i fenomeni della vita come una “macchina da presa” che capta il movimento, le espressioni più improbabili e ne conserva per sempre il suo respiro umano. La sua è una pittura di spirito, di essenze nascoste dietro il bagliore dello schermo del mondo e, laicamente, nelle sue prove più ardite, le figure regnanti nello spazio composto assumono il carattere iconico di certe antiche immagini di Santi, sebbene siano testimonianza di una fragilità nuova ancora tutta da decifrare. Ecco che, come un grande giocoliere, nelle tracce che ogni opera d’arte porta con sé del suo autore, Igor Molin ci fa immergere nell’ironico universo dei contrari dove, nell’apparente normalità delle posture dei soggetti, egli inserisce alcuni elementi di rottura: un pesce tenuto in mano con la stessa naturalezza di come si tiene una borsetta, una mosca che si posa sull’abito di un passante, come si trattasse di una presenza metafisica, o la riduzione delle proporzioni, senza alcuna scala gerarchica, in composizioni di grande effetto e che vediamo ad esempio in uno dei suoi dipinti più recenti: Ca’ Nocchia del 2008. Sono elementi bizzarri, quasi il virus di umor leggero, provenienti da una dimensione simbolica e cartellonistica che, in molti casi, fungono da chiave di lettura nel processo della rappresentazione. Così i rimandi culturali sono ben presto dispiegati e fusi in un unico gesto, ancora una volta, come in quei paradossi molto cari ad Igor, che vediamo nelle sue colorate alchimie.

– di Giovanni Blanco

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